L’insopprimibile cooptazione dei docenti universitari

L’INSOPPRIMIBILE COOPTAZIONE DEI DOCENTI UNIVERSITARI

di Fabrizio Lemme

Un aneddoto tratto dalla cronaca di Ottone Morena (cronista lodigiano vissuto a metà del secolo XII) riporta che Irnerio, morente, avrebbe designato il suo successore tra i quattro allievi prediletti, individuandolo in Jacopo Butrigario con questo distico: “Bulgarus os aureum, Martinus copia legum – mens legum est Ugo, Jacopus id quod ego.” “Et sic dictus Jacobus fuit doctor”.

         Siamo a Bologna, intorno al 1140.

         Irnerio, personaggio misterioso, anche nel nome (si propone, in alternativa, Warnerius), aveva ricevuto dall’Imperatore Federico Barbarossa, nel 1088, il decreto che lo autorizzava a “legere in legibus”, ossia, in buona sostanza, a tenere corsi di didattica sulle leggi civili che governavano il Sacro Romano Impero della Nazione Germanica, fondato nel Natale dell’anno 800 da Carlo Magno e denominato dai posteri come “Primo Reich”: leggi compendiate nel Corpus Juris Civilis lasciato da Giustiniano.

         Nel 1088, dunque, la tradizione riconosce la fondazione delle Università e Bologna conserva tuttora, come prima culla di questa nobile istituzione superiore di studi, il nome di “Alma Mater Studiorum”.

         Come si evince dal distico riferito da Ottone Morena, il primo maestro dell’Università, ossia il misterioso Irnerio, sceglie il suo successore per cooptazione: “et sic dictus Jacobus fuit doctor”.

         E da allora fino al 1960 il sistema di cooptazione è stato pacificamente seguito: non si riteneva, infatti, che esistesse miglior sistema di reclutamento dei docenti universitari di quello che ne affidava la scelta ai vecchi titolari di cattedra.

         Ma, a partire dalla rivoluzione studentesca del 1968 (la mitica ribellione dei giovani di tutta Europa a tradizioni ormai incrostate), il sistema venne decisamente contestato: si riteneva che in tal modo la classe dei vecchi docenti avrebbe perpetuato se stessa, senza consentire alcuna forma di rinnovamento e di adeguamento ai tempi.

         Da quel momento, si sono succeduti infiniti testi e strumenti normativi per preservare i concorsi universitari dai “nefasti” sistemi cooptativi dei vecchi docenti (denominati con malcelato disprezzo “Baroni”) ma il risultato risultava sempre lo stesso: in un modo o nell’altro, i “Baroni” continuavano a governare la loro successione, al punto che, da come era composta una commissione universitaria si poteva arguire, con matematica precisione, chi sarebbe risultato vincitore.

         È stato invocato, al riguardo, anche il delitto di abuso di ufficio (art. 323 c.p.), ma i “Baroni” hanno replicato che le loro scelte non integravano violazione di leggi o di regolamenti: in effetti, l’elezione dei migliori è retta dall’arbitrio di chi sceglie e non esiste un criterio predeterminato per legge che consenta di affermare chi debba essere fra gli eletti, chi fra i dannati (anche a proposito della scelta finale nel Giudizio Universale, almeno secondo Calvino, le scelte del Padreterno sono guidate dalla sua imperscrutabile Grazia e sfuggono ad ogni ragionamento umano!).

         Tra i sistemi curiosi, che dovevano porre al riparo la selezione dei docenti universitari, ne citiamo uno, che appare il più curioso di tutti: quello introdotto con il D.M. 15.7.2011 n. 17 che affida la Valutazione della Qualità della Ricerca a docenti di ignota estrazione, chiamati ad esprimere il loro maggiore o minore apprezzamento per tre prodotti di ricerca per ogni docente appartenente alla medesima struttura universitaria.

         In tal modo, aggregando i risultati di tutti gli appartenenti a tale struttura, ne risulterebbe non il livello del singolo docente ma la valutazione delle perfomances qualitative delle strutture od aree di ricerca universitaria.

         Un organismo denominato “ANVUR: Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca” doveva assicurare il corretto funzionamento del sistema valutativo introdotto con il D.M. 17/2011.

         A proposito del quale, va detto che l’anonimato dei giudici; il loro riferimento non alla singola persona ma alla struttura di cui essa fa parte; il ristretto margine di giudizio (da zero, minimo ad uno, massimo); la non trasponibilità automatica dei risultati della valutazione qualitativa ai concorsi universitari, avrebbero dovuto assicurare che il sistema escogitato era “il migliore del mondo nel migliore possibile dei mondi”, secondo la nota definizione di Leibniz, ridicolizzata da Voltaire (Candido).

         In realtà, alla verifica dei fatti, il sistema del VQR, invece di mortificare, ha esaltato il sistema della cooptazione universitaria, mettendo il potere baronale perfino al riparo dell’unico controllo possibile: chi fossero i giudici, come avessero orientato le loro scelte.

         Il sistema, infatti, mi ricorda una bieca pagina della nostra civiltà giuridica: la denunzia anonima, prevista nella Repubblica di Venezia ed affidata alle fauci di un leone in marmo, che, attraverso una canalizzazione, recapitavano il messaggio innominato fin nelle mani del Consiglio dei Dieci, preposto ad una giustizia di classe in uno stato assolutamente classista, quale era la oligarchia veneziana.

         Rammento il torbido personaggio di Barnaba, concepito dalla fantasia di Victor Hugo ed Arrigo Boito che, ne “La Gioconda” affida alle fauci del leone il suo messaggio calunnioso contro Enzo Grimaldo Principe di Santa Fiora, suo rivale in amore (O monumento schiudi le tue latebre!).

         I Baroni, infatti, protetti dall’anonimato; protetti dalla inesplorabilità delle loro scelte valutative, al punto che l’ANVUR normalmente rifiuta l’accesso agli atti a chiunque ne faccia ricerca e disattende al riguardo anche le sentenze dei giudici amministrativi, possono impunemente vendicarsi contro ricercatori e docenti universitari a loro ostili, svilendo, a proprio piacimento, le pubblicazioni scientifiche esaminate.

         È rimasto famoso infatti il caso di cinque docenti di Diritto del lavoro dell’Università di Palermo che, mal sopportando dei giudizi negativi espressi su loro pubblicazioni in sede di VQR, hanno chiesto l’accesso agli atti e, di fronte al rifiuto dell’ANVUR, hanno impugnato avanti al TAR della Sicilia il diniego opposto.

         I giudici siciliani, ritenendolo ingiustificato perché avrebbe eliminato una garanzia fondamentale nei confronti della P.A. quale il diritto di accedere ai suoi atti per verificarne la trasparenza, hanno accolto il ricorso, condannando anche l’ANVUR alle spese (sentenza 20.3.2014 n. 837 della II Sezione del TAR della Sicilia-Palermo).

         E, persistendo il diniego dell’ANVUR, con la successiva sentenza 24.3.2015, sempre della II Sezione del Tar della Sicilia-Palermo, hanno addirittura nominato un “Commissario ad acta” incaricato di assicurare l’accesso agli atti a favore dei ricorrenti, ponendo le spese del giudizio nuovamente a carico dell’ANVUR e disponendo la trasmissione degli atti alla Corte dei Conti, per i possibili profili di responsabilità erariale connessi alla persistenza del rifiuto.

         I docenti dunque hanno vinto: la battaglia, peraltro, non la guerra!

         E se la conclusione è vera per i docenti di Diritto del lavoro, a fortiori essa è valida nelle materie storico-artistiche, ove la valutazione del livello di ricerca dei giovani studiosi si sottrae ad ogni precostituita regola di giudizio.

         Da questa vicenda vorrei trarre allora una morale: se il sistema di cooptazione dei docenti universitari, scacciato dalla porta rientra dalla finestra ed è assolutamente ineliminabile; se a nulla valgono i mille diversi sistemi concorsuali escogitati per rimediare al soverchiante potere dei “Baroni”; tanto vale prenderne atto ed accettare la regola.

         La resa ai “Baroni” in fondo non avrebbe nulla di drammatico; anzi, risolverebbe in farsa (“tutto nel mondo è burla”, conclude Falstaff) una inutile battaglia che compie ormai cinquant’anni.

         Come in farsa si era tradotta la mitica frase scritta in Trastevere, all’indomani della caduta del Fascismo: “se nun ce date l’acqua né er gas né la luce – benché puzzone arivolemo er Duce”.