Mariana Mazzucato, nota economista componente della task force governativa per la ripresa economica, profila un’idea di “valore” capitalistico basata sul capitale “paziente“. Si tratta di un capitale privo di rendimento immediato, ma capace di creare benessere e sviluppo per l’intera comunità.
Il nuovo capitalismo, secondo questa concezione, avrebbe un orizzonte di medio e lungo periodo e non sarebbe misurabile esclusivamente in termini di profitto o di rendita puramente finanziaria. Inoltre dovrebbe essere armonizzato agli obiettivi del Green Deal europeo.
Questa visione evoca figure organizzatorie molto note nell’esperienza italiana, quali quelle degli enti pubblici economici che, a dire il vero, affondano le radici nel Ventennio fascista. Basti pensare all’IRI – Istituto della Ricostruzione Industriale – fondato nel 1933 ma che sopravvisse nel dopoguerra tanto da assumere progressivamente il ruolo centrale dell’intervento pubblico nell’economia.
La Costituzione Italiana riconosce il valore dell’iniziativa economica privata, in quanto libera.
Il suo esercizio tuttavia non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Inoltre riserva alla “legge di determinare i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali (art. 41 comma 3)”.
In altri termini tutti i rapporti sociali ed economici sono concepiti dalla Costituzione in quanto finalizzati all’attuazione dei più alti valori costituzionali (solidarietà, lavoro, eguaglianza, giustizia sociale, libertà). E non è un caso che settori a capitale ” paziente”, come il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione, siano concepiti come volano dello sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica (art. 9 Cost.).
Negli ultimi decenni, tuttavia, il ruolo dell’intervento diretto dello Stato nell’economia si è andato via via marginalizzando, tanto da determinare i gravissimi tagli subiti da settori quali la Cultura, l’Istruzione, la Ricerca e la Sanità.
Si è contrapposto ideologicamente il privato al pubblico, riponendosi aspettative di efficienza solo al primo. Lo Stato si è ritirato dal mercato, assumendo il ruolo di regolatore.
Ma il privato imprenditore ha come fine principale il profitto, da conseguire in tempi brevi. Viceversa, in settori sensibili come quelli a capitale paziente, l’allocazione delle risorse soggiace a logiche assai differenti e più vicine ai fini sociali e alla dimensione collettiva.
Appare allora prioritario considerare che ogni futuro intervento pubblico nell’economia debba avvenire rigorosamente nel rispetto delle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione (riserve di legge, coordinamento e programmazione economica), le sole capaci di garantire il difficile equilibrio tra salvaguardia dei fini sociali e liberismo economico privato, che è poi il tessuto socio- economico del Paese, fondato su libertà di scelta.
Mantenere questo equilibrio è assolutamente necessario nella attuale stagione storica: la pandemia si aggiunge alla grave crisi della rappresentanza e al ruolo incerto degli strumenti di partecipazione democratica (partiti, sindacati). L’uso scorretto dello strumento interventista – nello scenario della globalizzazione e dell’imponente presenza di grandi oligopoli mondiali- può mettere a rischio la libera concorrenza, la creatività, la ricerca, la sopravvivenza stessa delle micro e piccole imprese, linfa vitale dell’economia nazionale.
In altri termini può tramutarsi in dirigismo dettato da lobby economiche, ovvero creare distorsioni della concorrenza, inadeguate o ingiustificate rispetto ai fini.
Qualsiasi Agenda di Governo post Pandemia deve tener conto dell’alto prezzo pagato dalle donne durante la crisi.
La vera impresa di Stato è oggi più che mai l‘impresa delle donne, costrette a lavorare in forma agile, ma compresse dal carico di lavoro familiare determinato dalla sospensione di gran parte dei servizi pubblici di assistenza e istruzione. Non solo le condizioni di lavoro si aggravano, ma la gran parte delle donne, nella fase 2 della ripresa delle attività, non può ancora tornare nei luoghi di lavori e deve svolgere funzioni suppletive rispetto ai compti dello Stato (assistenza anziani, istruzione dei figli), in ragione delle misure di distanziamento sociale ancora vigenti.
Il Green Deal dovrà assolutamente affrontare la questione delle diseguaglianze sociali ed individuare al loro interno il gender gap, che pur avendo natura strutturale, si accentua per effetto della crisi pandemica.
In altri termini ai ritardi di ieri si aggiungono le diseguaglianze di oggi.
La programmazione politica e fiscale deve porre la massima attenzione agli ostacoli che gravano sul lavoro delle donne, ponendo in atto misure concrete ed efficaci compensative e riparative.
Se la coesione sociale ancora regge lo si deve in gran parte al sacrificio delle donne e quel sacrificio deve essere riconosciuto e indennizzato, incentivando sotto ogni aspetto le energie e la creatività femminili.