COSA SIANO GLI ARCHIVI E QUALI OBBLIGHI IMPONGANO
di Fabrizio Lemme
Nel 1513, Niccolò Machiavelli scrisse e successivamente (1532) pubblicò la sua opera più importante, il cui titolo, in lingua latina, era “De Principatibus”, poi volgarizzato come ”Il Principe” e divenuto essenza del suo pensiero politico.
L’opera analizza innanzitutto cosa si intenda per “principato”, come si acquisti un “principato”, come si difenda un “principato”, come lo si perda, ecc..
Il pensiero espresso da Machiavelli è di una lucidità assoluta e di una separatezza, altrettanto assoluta, della politica dalle regole morali: esso costituisce un vertice del pensiero.
Pure, ci piace riferirci ad esso quando, molto più sommessamente, parliamo di “archivi”, visto che anche per loro vorremmo individuare come si formino, quali obblighi comportino, come si evolvano ed eventualmente abbiano anche a cessare.
Dunque, a proposito di archivi, la prima domanda che si pone è “in cosa consistano”, quando, cioè, a proposito dell’opera di un artista, possiamo affermare che si sia formato “un archivio”.
Questo è diverso dal singolo studioso, che, a titolo puramente individuale, faccia oggetto delle sue ricerche l’opera integrale di un determinato artista.
Il singolo studioso può assumere una fama così universalmente riconosciuta da avere diritto di vita e di morte sulle opere di un artista, nel senso che la sua opinione sul tema dell’autografia sia considerata come verità assoluta. Ma l’archiviazione che egli ne elabora è un’attività puramente individuale, come individuali sono le opinioni che egli esprime: l’expertise, strumento fondamentale del lavoro di ricerca e catalogazione, è infatti – secondo la prevalente giurisdizione, anche di legittimità – manifestazione di una opinione, come tale insindacabile ed incoercibile.
Quindi, non esiste azione nei confronti dello studioso individuale.
L’archivio sarebbe invece il risultato di un lavoro collettivo: un insieme di studiosi decidono di raccogliere tutte le testimonianze possibili su un determinato artista e di elaborarne il catalogo generale, nella speranza di raggiungere l’esaustività.
Quando può dirsi allora che, su un artista, si sia formato un archivio?
In assenza di un segno esteriore di riconoscimento, l’archivio si forma “rebus et factis”, quando, nell’opinione generale della Comunità Scientifica, si riconosca che il gruppo di studiosi formatosi sull’artista abbia assunto una tale autorevolezza che la sua opinione sia divenuta imprescindibile.
Non si può dire, dunque, che un archivio abbia una precisa data di nascita: esso sorge solo quando è individuato come tale dalla Comunità Scientifica e quando quest’ultima avrà visto, all’interno del gruppo di studiosi che compongono l’archivio, anche il nome di riferimento esterno.
Ma – e qui veniamo al tema più delicato – se l’expertise,come accennato, non è altro che un’opinione, vi è l’obbligo di esprimerla a richiesta di qualsiasi possessore di opere riferite all’artista?
Ed essa può considerarsi intrinsecamente sindacabile, nel senso che debba quantomeno corrispondere a dei principi di ragionevolezza, in assenza dei quali un giudice può ritenere ingiustificato il rifiuto di riconoscimento?
Qui il problema si complica: vi sono due norme che vengono in considerazione come dati di riferimento per identificare se esista o meno l’obbligo di un archivio di esaminare qualsiasi domanda e di rispondere, l’art. 1989 c.c., sulla promessa al pubblico e l’art. 2597 c.c., sull’obbligo di contrattare di chi sia in una posizione, anche di fatto, di monopolio.
Esaminiamo queste due norme: la prima (1989) recita che “colui che, rivolgendosi al pubblico, promette una prestazione a favore di chi si trovi in una determinata situazione …, è vincolato dalla promessa non appena questa è resa pubblica”.
Quindi, se nel costituire un archivio i costituenti ne danno pubblica notizia (ad esempio, come accade spesso, su questo giornale), invitando tutti i possessori di opere di un determinato artista a darne comunicazione all’archivio per l’archiviazione, la fonte dell’obbligo di esaminare la richiesta e rispondere ad essa può rintracciarsi nell’art. 1989 c.c..
Escluderei viceversa l’applicabilità dell’art. 2597 c.c.: tale norma, infatti, si riferisce solo al diritto dell’impresa commerciale, come definita nell’art. 2082 c.c. e, atteso il suo carattere di norma eccezionale, non è neppure suscettibile di applicazione analogica, ai sensi dell’art. 14 prel..
Nel caso di promessa al pubblico contemplato dall’art. 1989 c.c., l’archivio non può rifiutarsi di rispondere alla singola richiesta e la risposta deve essere formata applicando delle regole di ragionevolezza, in se stesse sindacabili.
Ed allora, un’opinione fondata solo su un giudizio sommario può essere dal giudice considerata irragionevole e come tale illegittima?
Io risponderei positivamente solo nel caso che la formazione dell’archivio sia stata preceduta dalla pubblica menzione di esso e dall’invito a formulare le richieste ai possessori delle opere d’arte. Infatti, solo in questo caso è da ritenere che i costituenti l’archivio, nel promettere la catalogazione, si impegnino anche a seguire, nella formazione di questa, delle regole di ragionevolezza.
Al di fuori dell’ipotesi prevista dall’art. 1989 c.c., l’espressione dell’opinione sull’autografia o meno di una singola opera resta, appunto, una opinione, come tale insindacabile ed incoercibile.
Quindi, se il privato, deluso nelle sue aspettative, adisce il giudice per far dichiarare irragionevole la mancata catalogazione come originale dell’opera da lui posseduta e manchino i presupposti per l’applicabilità dell’art. 1989 c.c., la domanda dovrà essere, a mio avviso, respinta: non esistono, infatti, all’interno dell’ordinamento giuridico, non solo l’obbligo di rispondere ma anche la sindacabilità della risposta.
In quanto opinione, essa infatti è libera ed incoercibile: potreste immaginare che qualcuno adisca il giudice per far dichiarare l’irragionevolezza delle mie opinioni politiche?
A ben vedere, siamo nella stessa materia ed è proprio della democrazia l’inesistenza di regole che presiedano alla formazione dei convincimenti personali.
Non la pensavano così, evidentemente, Zdanov e Goebbels quando elaborarono le teorie del realismo socialista e dell’arte degenerata: ma questa era dittatura!
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