Una breve riflessione sulla disperata ricerca di colpevoli
dell’Avv. Massimiliano Oggiano
Da diversi decenni, nei Paesi occidentali industrializzati, si assiste ad un costante e preoccupante incremento delle diagnosi di malattie neoplastiche, con esito letale, derivanti (in maniera più o meno univoca) dall’inalazione di fibre di asbesto.
Il fenomeno – che interessa anche e soprattutto l’Italia, pacificamente votata, nell’immediato dopoguerra, ad una politica industriale concentrata, in larga misura, sul settore siderurgico (ove si è fatto ampio ricorso all’utilizzo del predetto minerale, anche nella realizzazione di presidi di protezione individuale del lavoratore) – non rappresenta solo un gravissimo problema sotto il profilo umano e sociale ma, come è logico, impegnando la magistratura requirente e giudicante di tutto il territorio nazionale, mette in luce le criticità di un sistema profondamente incoerente che, all’epoca delle condotte contestate agli imputati, da un lato, non di rado, imponeva il massiccio uso di fibra di amianto e, dall’altro (per quanto spesso sostiene la Pubblica Accusa), vietava l’esposizione del lavoratore alla stessa.
Tralasciando, in questa sede, i noti argomenti inerenti all’indiscriminata diffusione, non solo in ambito lavorativo, del pericoloso minerale (impiegato in modo estremamente promiscuo, finanche nell’industria alimentare e negli ambienti di vita quotidiana, dal primo dopoguerra alla fine degli anni ottanta), si vorrebbe richiamare l’attenzione sulla discutibile risposta al problema che, sovente, offre il nostro sistema giudiziario.
La peculiarità delle patologie “asbesto-correlate”, caratterizzate dai lunghissimi tempi di latenza che intercorrono tra il momento dell’esposizione alla fibra, quello di insorgenza della patologia e quello, ancora successivo, di effettiva diagnosticabilità, influenzano non poco il percorso di accertamento della verità processuale, generando, spesso, pronunce che paiono edificate più sull’irresistibile tentazione di assicurare una sorta di anacronistica “giustizia sostanziale” (non certo consona al nostro sistema giuridico penale) che non sull’effettiva sussistenza degli elementi in base ai quali poter affermare, “al di là di ogni ragionevole dubbio”, la responsabilità penale dell’imputato.
Posto che la manifestazione clinica del carcinoma polmonare e del mesotelioma – due tra le più diffuse malattie correlabili all’inalazione di fibre di asbesto – interviene a distanza di diversi decenni dall’effettiva attivazione del processo causale (collocabile al tempo delle prime esposizioni alla fibra e peraltro, a seconda della patologia contratta, differentemente influenzato, nel suo evolversi, dalla persistenza o meno dell’esposizione), sono inevitabili i riflessi in ambito processuale, inerenti, prevalentemente, ma non solo, alle difficoltà di reperimento delle fonti di prova ed alla spesso trascurata valutazione dell’evoluzione sociale, tecnologica e scientifica.
Proprio in ordine a quest’ultimo aspetto sarebbe opportuno considerare, innanzitutto, il blando grado di attenzione all’epoca riposto dal legislatore alla fonte di pericolo in esame (in Italia l’impiego e la commercializzazione dell’amianto sono formalmente vietate solo a partire dal 1992), in second’ordine, sempre nel medesimo contesto temporale, la generale e diffusa indifferenza alla fonte di rischio, equparabile a quella che attualmente caratterizza innumerevoli altri fattori di pericolo per la salute dei lavoratori e della collettività in generale (in primis l’esposizione all’inquinamento da combustione di idrocarburi e l’esposizione ad onde elettromagnetiche).
Oggi la sensibilità sul pericolo per l’incolumita individuale, insito nell’inalazione di fibre di amianto, è enormemente accresciuta e si finisce per pretendere, anche in sede penale, che la medesima attenzione sul predetto fattore di rischio (sussistente anche in ipotesi di inalazione di bassissime dosi di fibra) avrebbe dovuto essere assicurata fin dall’origine (allorquando era lo stesso legislatore a trascurare grossolanamente il problema).
Viene da chiedersi, a questo punto, se il discutibile ritardo con cui il nostro ordinamento ha recepito l’esistenza del rischio da inalazione di fibre di amianto e vi ha posto rimedio (almeno normativamente), accompagnato da una postuma “caccia al colpevole”, non possa ciclicamente ripetersi anche in ordine ad ulteriori e non meno gravi fonti di pericolo per la pubblica incolumità, oggi totalmente trascurate o quantomeno disciplinate in modo assolutamente inadeguato.
In altri termini, si è quasi certi degli effetti che l’esposizione prolungata ad onde elettromagnetiche produce sull’individuo ma, al pari di come accadeva negli anni settanta ed ottanta per l’amianto, non si adotta alcuna misura concretamente efficace per eliminare tale fonte di rischio per la salute.
Il provocatorio parallelismo, non immune da inevitabile approssimazione, dovrebbe indurre alle seguenti importanti riflessioni dubitative: è giusto sanzionare con la limitazione della libertà personale il comportamento di colui che, in passato, allineandosi alla comune coscienza ed alla volontà legislativa, abbia omesso di adottare cautele in ordine a fattori di rischio non chiaramente ed inequivocabilmente qualificati tali? Si può sostenere che si faccia giustizia quando si condanna un soggetto, per lo più ultraottantenne (dati i lunghi tempi di latenza di cui si è già detto), per condotte che, probabilmente, al suo posto, anche chi oggi lo giudica avrebbe al tempo tenuto?
Ai suddetti quesiti, in tempi non troppo remoti, un Giudice di merito ha offerto la pregevole risposta che merita di essere richiamata in questo brevissimo scritto: “La tragedia collettiva delle morti da amianto, che purtroppo vedrà il suo picco fra dieci anni, non può e non deve essere risolta sul piano penalistico. L’esigenza di trovare a tutti i costi una o più persone fisiche che debbano rispondere personalmente di numerosi reati di omicidio colposo, esaminata la problematica in modo scevro dalla retorica, non può essere soddisfatta”.
E – richiamando, sostanzialmente le pregevoli parole pronunciate dal Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, Consigliere Iacoviello, nella requisitoria del noto processo a carico dei vertici della società “Eternit”,“quando il giudice è posto di fronte alla scelta drammatica tra diritto e giustizia non ha alternativa, un giudice sottoposto alla legge tra diritto e giustizia deve scegliere il diritto” – conclude in questi termini: “Un giudice deve decidere secondo diritto e non allo scopo di accontentare chi chiede una sentenza probabilmente pacificatrice dal punto di vista emotivo”.
Non vi sono pretese di sovvertimento degli orientamenti giurisprudenziali o della coscienza comune in quanto sin qui immodestamente esposto, solo l’intenzione di esaminare, sotto un punto di vista nuovo e diverso rispetto a quello solitamente offerto alla collettività, un tema assai delicato e spesso trascurato: la pronta risposta dell’ordinamento penale non è sempre tale e non sempre assicura vera giustizia.