Avv. Antonella Anselmo
In Italia, se mai le donne riusciranno ad accedere al servizio di interruzione volontaria di gravidanza – l’IGV – lo faranno con dolore. Non il dolore personale e muto che accompagna la scelta volontaria e consapevole, ma il calvario gratuito inferto dalle strutture sanitarie tenute ad erogare un servizio essenziale garantito dallo Stato dalla legge 194/1978 e dalla Carta Costituzionale. È questa l’amara fotografia che ci consegna il Consiglio d’Europa con la decisione 12 ottobre 2015, pubblicata l’11 aprile 2016, su reclamo della CGIL. Sulla danza dei numeri, le statistiche rassicuranti di Regioni e Ministero della Salute – puntualmente contraddette dai dati del “sommerso” fornite da Laiga – il Consiglio d’Europa, per la seconda volta dopo il 2014, accerta che nel nostro Paese si registrano multiple e ingiustificate discriminazioni, che ledono la Carta Sociale e il diritto internazionale. Nel dettaglio emerge questa drammatica situazione: i) la discriminazione nei confronti delle donne per aree geografiche e contesti socio-economici che deriva da un servizio fornito a macchia di leopardo, se non addirittura negato in alcune Regioni; ii) la discriminazione per prestazioni sanitarie, che viene regolarmente fornita per taluni bisogni sanitari a tutela della salute della donna ma negata nel caso di IVG; iii) infine, la discriminazione in danno dei sanitari che applicano la legge 194. Questi sono ridotti ad un numero sempre più esiguo, con sovraccarico di lavoro e penalizzazioni nell’avanzamento delle carriere. Tutto questo è stato reso possibile dilatando l’obiezione di coscienza, una libertà costituzionalmente garantita ai sanitari e definita dall’art. 9 della L. 194/1978, che è divenuta il grimaldello politico e amministrativo dell’intero sistema di protezione e tutela della salute procreativa della donna e di sostegno alla maternità. I dati statistici, ancorché frammentari, evidenziano il depotenziamento delle strutture pubbliche a vantaggio di quelle private, in cui il servizio di accesso all’IGV appare più agevole, ancorché a pagamento. Ma anche l’aumento di aborti spontanei è il chiaro indice di corsie alternative all’interruzione della gravidanza che dovrebbe essere assicurata alle chiare condizioni della legge. Molte strutture sanitarie pubbliche, infatti, non erogano il servizio di IVG oppure hanno liste d’attesa incompatibili con il bisogno d’urgenza delle pazienti. A questo si aggiunga anche la beffa: la recente depenalizzazione dei cd. reati minori porta con sé l’aumento vertiginoso delle sanzioni pecuniarie per l’aborto clandestino. Lacrime amare e conto salato per le povere donne che si vedono negata l’IVG statale! La totale inadeguatezza delle misure assunte dalle Regioni e dal Governo per garantire l’applicazione della L.194 sollecitano un intervento normativo urgente e fermo per il rafforzamento e la razionalizzazione di un servizio pubblico essenziale volto a garantire livelli di assistenza (LEA) e il rispetto di obblighi internazionali a tutela dei diritti delle donne. Un vero e proprio Piano Nazionale per la salute riproduttiva delle donne, non più gli inutili Tavoli Tecnici. Le misure, per risultare efficaci, debbono essere necessariamente molteplici e coordinate. Innanzitutto il legislatore, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale e amministrativa, dovrebbe chiarire che l’obiezione di coscienza non può estendersi alle certificazioni mediche, alle attività amministrative o post terapeutiche che la struttura sanitaria deve garantire, ma solo all’intervento di IVG inteso in senso stretto. Resta salvo il principio che la violazione dei limiti all’obiezione di coscienza configura un illecito penale, disciplinare e professionale commesso dal sanitario. In secondo luogo occorre rendere evidente la responsabilità del primario o responsabile della struttura per il mancato o inefficace servizio. Si tratta di una responsabilità gestionale e amministrativa che danneggia l’intera collettività, e non solo le donne o le coppie malcapitate. In terzo luogo è necessario potenziare i Consultori pubblici come luoghi di eccellenza per l’erogazione dei servizi di consulenza, indirizzo e assistenza sui diritti riproduttivi, ivi inclusi i sistemi di contraccezione, gli interventi farmacologici, i rimedi di procreazione assistita per l’infertilità e la sterilità della coppia, la diagnostica prenatale. Infine, occorre determinare una quota di riserva dei posti in pianta organica per operatori non obiettori, che risulti adeguata e proporzionata rispetto alla domanda (reale) del bacino di utenza. Un’ultima considerazione. Se non vi è trasparenza nella Pubblica Amministrazione non può esservi garanzia di legalità né controllo diffuso. Dunque appare necessario rendere pubblici e agevolmente consultabili tutti i dati regionali sui percorsi di accesso all’IGV: l’indicazione delle strutture, eroganti e non, del personale sanitario impiegato, obiettore e non obiettore, la tracciabilità del riparto dei fondi pubblici tra il settore pubblico e quello privato, l’assistenza prestata in regime di ricovero o domiciliare. Infine le donne che si trovano in condizione di vulnerabilità per il calvario di accesso all’IGV non debbono essere lasciate sole. La previsione specifica della class action sui servizi pubblici in capo alle associazioni femminili che hanno tra le finalità statutaria la difesa dei diritti delle donne, è certamente uno strumento di azionabilità in sede giudiziaria volto a denunciare la mala gestio in relazione alla L. 194 ovvero l’inefficacia dell’erogazione del servizio sanitario, come emerge dalle statistiche regionali e ministeriali. L’azione collettiva è prevista in materia ambientale e, più in generale, per i servizi pubblici.
Potrà essere estesa in tema di L. 194 anche a tutela dei diritti delle donne. O no?