Quando, nel 1983, accettai la proposta di Umberto Allemandi di collaborare a questa rivista, con una rubrica mensile “L’Avvocato dell’Arte”, mi fu chiara una cosa: la mia funzione sarebbe stata quella di diffondere i problemi giuridici legati al mondo dell’arte, non la ricerca scientifica, destinata a pubblicazioni specialistiche.
Da quella data, ho scritto oltre 250 articoli, che hanno attirato l’attenzione del mondo degli storici dell’arte, degli operatori culturali, anche di qualche giurista, che mi ha citato nella bibliografia, come, fra altri, Pierluigi Cipolla, Maria Beatrice Mirri, Raffaele Tamiozzo.
Per il resto, l’universo degli specialisti e cattedratici si è chiuso a riccio ai miei spunti.
E questo è normale per un mondo nel quale si può avere una cattedra di Diritto dei Beni Culturali ignorando completamente qualsiasi rudimento della materia storico-artistica.
Ed è appunto in questo mondo che fioriscono le frasi fatte, prive di ogni significato, come “inestimabile valore”, “restauro come ripristino del messaggio poetico originario”, “l’Italia possiede il 70% del patrimonio culturale mondiale”, “non c’è libertà senza cultura né cultura senza libertà” ecc. ecc..
A questa regola di chiusura, pur senza indulgere… [doc]