Avv. Silvia Galletti
Da una recente esperienza giudiziaria in materia di revocatoria del Trust, fondata sulla sussistenza di un credito litigioso[1], è sorto l’interesse di approfondire la disciplina dell’istituto nell’ottica di definire il corretto ambito di utilizzo del Trust stesso.
Il lavoro di analisi che segue avrà lo scopo di delineare a grandi linee le caratteristiche del Trust riconosciuto dal nostro ordinamento giuridico e di valutare se l’istituto sia o meno lesivo degli interessi e dei diritti dei creditori.
Nell’epoca attuale, infatti, si sente spesso parlare del Trust come di un “rimedio illegale”; ciò tutte le volte in cui si cede al populismo di chi vuole dimostrare di aver svelato strumenti cui “i ricchi disonesti” farebbero ricorso per nascondere le loro sostanze.
La realtà è che il Trust é un istituto complesso e multiforme.
Occorre tenere presente, anzitutto, che non esiste un solo tipo di Trust ma che, al contrario, esistono “i Trusts” e che ognuno di essi può avere caratteristiche del tutto diverse dagli altri.
La tipologia del Trust è strettamente connessa alle particolarità del caso, alla volontà ed alle esigenze personali del singolo Disponente.
Come noto, il Trust è un istituto di origine anglosassone che ormai ha trovato diffusione in tutto il mondo.
Nell’ordinamento giuridico italiano, il Trust è stato recepito con la ratifica della Convenzione de L’Aja sulla legge applicabile al trust del 1° luglio 1985, avvenuta con la legge n. 364 del 16 ottobre 1989, entrata in vigore il 1° gennaio 1992.
E’ stata così riconosciuta la legittimità dei Trust istituiti all’estero e consentito l’istituzione anche in Italia, nel caso in cui tutti gli elementi (in particolare soggetti e beni) siano italiani.
Il Trust, nella sostanza, è quell’istituto che consente ad un soggetto, detto Disponente, di affidare e trasferire in proprietà ad un altro soggetto di sua fiducia, detto Trustee, uno o più beni, affinché quest’ultimo ne assuma il controllo e li gestisca nel rispetto delle finalità stabilite dal Disponente e nell’interesse di uno o più Beneficiari.
Per il legislatore italiano, il Trust è legittimo solo laddove la causa che sorregge il negozio sia lecita e meritevole di tutela, visto che per assicurare il raggiungimento della stessa l’ordinamento prevede un effetto prorompente consistente nella segregazione, ossia nella separazione dei beni in Trust dal restante patrimonio del Trustee.
Ciò in quanto il Trustee non può avvantaggiarsi personalmente dall’essere proprietario dei beni in Trust, non può fare suoi i frutti, né godere dei beni stessi ma è tenuto solo ad utilizzarli e gestirli nell’interesse dei Beneficiari.
D’altro canto, i beni in Trust non cadranno in successione in caso di decesso del Trustee così come non potranno essere oggetto di azioni esecutive promosse da creditori personali del Trustee e saranno esclusi dall’eventuale regime di comunione legale tra coniugi.
I beni in Trust sono, quindi, caratterizzati da un “vincolo di separazione” poiché risultano separati sia dal patrimonio del Disponente (da cui quei beni si staccano), sia dal patrimonio personale del Trustee (con il quale quei beni non si confondono); il tutto avviene nell’interesse del/dei Beneficiari che otterranno la proprietà degli stessi solo al termine del Trust.
Ma quando si può utilizzare un Trust?
L’utilizzo dei Trusts, come visto, è multiforme: l’istituto in questione può essere utilizzato, a titolo esemplificativo ma non esaustivo, per:
- la tutela della integrità e della destinazione del patrimonio familiare;
- la tutela dei soggetti “deboli” della famiglia;
- in caso di divisione ereditaria;
- nell’ambito di vicende del capitale di rischio della famiglia o dell’azienda di proprietà familiare;
- acquisti immobiliari operati dai genitori per conto dei figli;
- consentire la partecipazione in fondi comuni;
- consentirel’acquisizione di quote societarie comprensive dei diritti amministrativi connessi;
- la costituzione ex- novo di società affidate al gestore.
Attese le diverse sfaccettature che può assumere l’istituto in questione, appare necessario verificare – caso per caso – le ipotesi in cui il Trust viene utilizzato per una causa legittima da quelle in cui viene usato per spogliare il Disponente dal proprio patrimonio a danno dei creditori.
Il legislatore italiano, a tutela del ceto creditorio, con l’art. 2901 c.c. ha disciplinato l’azione revocatoria ordinaria e prescritto:
“Il creditore, anche se il credito è soggetto a condizione o a termine, può domandare [2652 n. 5] che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione del patrimonio con i quali il debitore rechi pregiudizio alle sue ragioni [524, 1113], quando concorrono le seguenti condizioni:
1) che il debitore conoscesse il pregiudizio che l’atto arrecava alle ragioni del creditore o, trattandosi di atto anteriore al sorgere del credito, l’atto fosse dolosamente preordinato al fine di pregiudicarne il soddisfacimento;
2) che, inoltre, trattandosi di atto a titolo oneroso, il terzo fosse consapevole del pregiudizio e, nel caso di atto anteriore al sorgere del credito, fosse partecipe della dolosa preordinazione.
Agli effetti della presente norma, le prestazioni di garanzia, anche per debiti altrui, sono considerate atti a titolo oneroso, quando sono contestuali al credito garantito.
Non è soggetto a revoca l’adempimento di un debito scaduto [1183, 1186; l.f. 67] .
L’inefficacia dell’atto non pregiudica i diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di revocazione [2652 n. 5, 2690; l.f. 64 ss.]”.
I presupposti per l’accoglimento dell’azione revocatoria sono:
- a) la sussistenza di una ragione di credito da parte del soggetto che agisce;
- b) l’eventus damni, inteso come il compimento di un atto che non necessariamente determini l’insolvenza del debitore, ma renda anche soltanto più difficoltosa una eventuale futura soddisfazione del creditore mediante una modifica del patrimonio non solo sotto il profilo quantitativo, ma anche sotto quello qualitativo;
- c) la scientia damni da parte del debitore, consistente nella generica, ma effettiva consapevolezza del danno che si arreca agli interessi del creditore, senza che assuma rilievo l’intenzione del debitore di ledere la garanzia patrimoniale generica del creditore.
Rispetto al Trust, nel caso di revocatoria ordinaria sarà, anzitutto, necessario verificare se l’atto posto in essere dal debitore (ossia il conferimento del bene al Trust) ha generato un pregiudizio al creditore[2] e se l’atto revocabile sia atto a titolo oneroso o a titolo gratuito.
Ovviamente, ci si deve qui limitare a considerare l’esperibilità dell’azione revocatoria ordinaria (avente ad oggetto non l’atto istitutivo bensì il conseguente atto di disposizione) nel diritto interno quando cioè gli elementi essenziali soggettivi e oggettivi sono collegati al nostro ordinamento, nella specie, quando il Disponente è soggetto al diritto interno e/o quando i beni si trovano nello Stato.
Qui vanno dunque considerati gli effetti e le condizioni dell’atto di disposizione del Disponente in riferimento ai principi che configurano gli estremi di applicabilità dell’art. 2901 c.c..
L’elaborazione giurisprudenziale, quanto all’elemento del danno, è ferma nella rigida applicazione dell’art. 2901 c.c. e continua a considerare, in “re ipsa”, “l’eventus damni” quale presupposto dell’azione revocatoria ordinaria, allorquando l’atto di disposizione determini la perdita concreta ed effettiva della garanzia patrimoniale del debitore.
Il Trust è oggi visto certamente con sfavore proprio in considerazione alla sua specifica finalità nonché alla considerazione ed alla prevalenza che il nostro ordinamento assegna al ceto creditorio in generale.
È altrettanto chiaro come, secondo i principi del nostro ordinamento, la causa ed il motivo (anche sotto il profilo dell’art. 1345 c.c.) del Trust siano certamente ed immediatamente quelli di sottrarre beni ai creditori del Disponente.
Ed allora occorre chiedersi se l’ordinamento italiano, che pure ha recepito la Convenzione dell’Aja, possa ancora mantenere rigidi i principi degli artt. 2740 e 1345 c.c., nonché dell’art. 2901 c.c. nei confronti del Trust. E se tali principi, almeno come sino ad oggi applicati, non comportino sempre la revocabilità degli atti di trasferimento di beni in Trust, quando (prima o dopo il sorgere del debito) l’atto di trasferimento possa essere considerato dolosamente preordinato al fine di pregiudicare il soddisfacimento dei crediti attuali o futuri del Disponente.
In attesa di uno sviluppo dottrinario e giurisprudenziale che fornisca le risposte, a parere di chi scrive, occorre evidenziare che i Trusts non necessariamente devono considerarsi uno strumento illecito al quale ricorrere per costruire complicati meccanismi che consentano di conseguire vantaggi fiscali o eludere o evadere le imposte.
L’errata idea del Trust, che si è sviluppata in Italia, dà vita ad un uso distorto dell’istituto oggetto di analisi con lo scopo di gestire particolari operazioni societarie che nulla hanno a che fare con la reale finalità dell’istituto.
Non solo.
Spesso siamo legati all’idea di ricorrere al Trust solo in presenza di ingenti patrimoni. In verità i Trusts costituiscono uno strumento che spiega ottimi effetti, come l’esperienza anglosassone insegna, soprattutto nelle piccole realtà familiari e in ambito successorio.
Evidentemente, c’è ancora molto da fare per far accettare nel nostro ordinamento il Trust ed i principi che lo regolano e che lo ispirano e ciò è certamente legato alla profonda differenza tra gli ordinamenti di civil law e common law ed alla diversa mentalità degli operatori dei due sistemi che, certamente, non può essere superata dal semplice recepimento di una Convenzione estranea alla natura del nostro ordinamento giuridico.
[1]Il consolidato orientamento giurisprudenziale ritiene revocabile il Trust sulla base della mera sussistenza di un’aspettativa di credito e quindi anche di un credito litigioso (ossia oggetto di un giudizio di accertamento). Nel caso di specie, il giudice del primo grado ha disposto la revoca del Trust nelle more dell’accertamento della sussistenza del credito, subordinando la messa in esecuzione della sentenza all’accertamento positivo. La Corte di Appello chiamata a valutare l’esattezza della motivazione fornita dal Tribunale ha dovuto riformare la sentenza e rigettare la domanda revocatoria essendo stata emessa nelle more sentenza di accertamento negativo del credito che ha fatto venir meno la legittimazione ad agire in revocatoria del creditore e la conseguente pronuncia di intervenuta carenza di legittimazione attiva.
[2] Ciò avviene quando il Disponente si è completamente spogliato del proprio patrimonio, o della parte più importante dello stesso, immediatamente prima del sorgere del credito (della cui esistenza, però, il Disponente era ben a conoscenza) e con la consapevolezza di ledere le ragioni creditorie.