Avv. Silvia Galletti
Il legame tra medico e paziente, o meglio tra l’obbligo informativo del personale sanitario ed il consenso prestato dal paziente al trattamento terapeutico, è un tema che è stato oggetto di un vasto approfondimento ad opera della giurisprudenza.
L’assunzione obbligatoria da parte del medico del consenso informato espresso dal malato ha dato, infatti, vita ad una casistica che ha avuto risvolti sia in ambito civilistico sia in quello penalistico.
L’omesso consenso informato non è considerato reato ma è perseguibile solo in sede civile ove viene riconosciuto il diritto al risarcimento dei danni etiologicamente connessi alla mancanza del consenso stesso.
Spesso assistiamo, infatti, a procedimenti giudiziari sulla responsabilità medica nell’ambito dei quali il sanitario viene accusato di inadempimento per aver omesso di prestare al malato adeguata attività informativa e/o per aver assunto dallo stesso un consenso informato invalido, e per questo condannato a risarcire i danni subiti dal paziente.
Per comprendere appieno in cosa consiste è utile far chiarezza sulle caratteristiche proprie del consenso informato, ripercorrendo brevemente anche il decorso storico che lo ha rappresentato.
. Cenni Storici
Nell’antichità l’etica medica si incentrava sul carattere e sulle virtù personali del medico.
Sino alla metà del 20° secolo la legislazione in tema di etica medica era costituita unicamente dal noto giuramento di Ippocrate e dai codici professionali dei medici. La garanzia per i pazienti che il medico agisse secondo correttezza era, quindi, costituita unicamente dal controllo esercitato dalla stessa comunità medica mediante la selezione professionale.
Il rapporto medico – paziente era caratterizzato da un’etica medica paternalistica che, nella sostanza, prescriveva di agire o di omettere di agire per il bene di una persona senza la necessità di chiedere il suo assenso, in quanto si riteneva che il medico avesse la competenza tecnica necessaria per decidere in favore e per conto del paziente beneficiario.
La relazione che si veniva ad istaurare tra medico e paziente era palesemente asimmetrica.
Dall’11º sec. l’etica medica fece propri i valori morali della religione cattolica, e l’attenzione si spostò sui doveri e i principi cui un buon medico doveva ubbidire.
L’evoluzione è tale che nel Medioevo l’essere medico veniva considerato un privilegio e come tale richiedeva formazione, abilità ma anche responsabilità.
Nell’età post-illuminista si svilupparono sempre più i temi legati ai rapporti tra medico e società tanto che l’etica medica iniziò ad includere le questioni di giustizia, professionalità e politica sanitaria.
La svolta in questo contesto storico fu costituita dalla scoperta dei crimini commessi dai medici nei campi di concentramento nazisti dove la condotta immorale tenuta dai professionisti veniva dagli stessi giustificata con il dovere di ubbidire, come gli altri cittadini, alle leggi dello Stato e al principio utilitaristico secondo il quale, durante un conflitto, la ricerca dovesse anteporre gli interessi della società a quelli del singolo.
Nella stessa epoca emerse che anche al di fuori del contesto tedesco erano state eseguite sperimentazioni su soggetti umani contrari a un’etica rispettosa dei diritti fondamentali della persona.
Ciò indusse il tribunale di Norimberga, chiamato a giudicare i crimini del nazismo, a includere nella sentenza un decalogo etico per ogni ricerca clinica su soggetti umani. Ne conseguì il Codice di Norimberga (1947) che fece propri principi in base ai quali il “consenso volontario” era il presupposto “essenziale” per una condotta moralmente accettabile della sperimentazione con soggetti umani.
Nel 1948 venne votata dall’Associazione medica mondiale la Dichiarazione di Ginevra, che aggiornava in chiave laica i contenuti del giuramento di Ippocrate e impegnava il medico a non utilizzare, nemmeno “sotto costrizione”, le sue conoscenze contro le leggi dell’umanità.
Nella Dichiarazione di Helsinki del 1964 venne inserito il principio per il quale solo il consenso espresso giustificava moralmente la ricerca sui soggetti umani e che “nella ricerca medica gli interessi della scienza e quelli della società non devono mai prevalere sul benessere del soggetto”.
A partire dagli anni Sessanta del 20° sec. il progresso scientifico e tecnologico da un lato ed il ruolo sempre più centrale rivestito dal paziente inteso come persona capace di scelta autonoma e titolare del diritto di rifiutare, sulla base del proprio sistema di valori, il trattamento terapeutico hanno sottolineato ancor di più l’inadeguatezza del paternalismo medico che, di fatto, andava a ledere il diritto individuale all’autodeterminazione.
Al modello etico paternalistico si è quindi sostituito il modello etico contrattuale.
Anche se permangono diversi dubbi in merito, la relazione medico – paziente inizia così ad assumere le vesti di una relazione simmetrica in quanto i contraenti, soggetti autonomi ed uguali, aventi il medesimo potere di negoziazione, sottoscrivono liberamente un patto.
. Il Consenso informato oggi
Ne é seguita l’introduzione nella prassi medica della pratica del consenso informato, inteso come l’assenso prestato dai pazienti, ad accertamenti diagnostici o ad atti terapeutici o di sperimentazione, previa adeguata informazione sul loro stato di salute e sulle alternative terapeutiche da parte del personale sanitario.
Il principio posto a base del consenso informato è quello di salvaguardare la libera autodeterminazione e le cure nel rispetto delle libertà e della dignità della persona e trova fondamento costituzionale:
– nell’art. 2, che tutela e promuove i diritti fondamentali della persona, della sua identità e dignità;
– nell’art. 32, a mente del quale nessuno può essere sottoposto obbligatoriamente a trattamenti terapeutici;
– nell’art. 13, che disciplina l’inviolabilità della libertà personale.
Il consenso informato diviene, quindi, un autonomo diritto della persona quale espressione dell’autodeterminazione del paziente e rappresenta la libera e consapevole adesione dello stesso all’intervento sanitario (Cass., sez. III, 6.6.2014, n. 12830).
L’ordinamento giuridico italiano con la legge del 28.3.2001, n. 145 ha ratificato la Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina siglata a Oviedo nell’aprile del 1997 che dedica gli artt. da 5 a 9 alla definizione del consenso informato.
La Convenzione pone, in particolare, la seguente regola generale: “Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso.” (art. 5) Viene, inoltre specificato che in caso di paziente minore o incapace il consenso debba essere manifestato da un rappresentante.
Sulla medesima linea di principio, anche nel Codice di Deontologia Medica del 2006 troviamo una specifica disciplina del consenso informato (si vedano gli artt. da 33 a 38).
E’ bene considerare, comunque, che esistono delle eccezioni all’obbligo del consenso informato e tra queste vi sono ad esempio:
- le situazioni nelle quali la persona malata ha espresso esplicitamente la volontà di non essere informata;
- le condizioni della persona siano talmente gravi e pericolose per la sua vita da richiedere un immediato intervento di necessità e urgenza. In questi casi si parla di consenso presunto;
- i Trattamenti Sanitari Obbligatori(TSO).
Al di fuori di tali ipotesi, numerosi sono stati gli interventi tesi ad individuare quale fosse la forma più appropriata per l’assunzione del consenso informato.
Nell’ambito giurisprudenziale si sono sviluppati diversi orientamenti in merito ma il principio cardine è quello in virtù del quale ad eccezione delle ipotesi in cui una legge statale o il Codice di Deontologia Medica prescrivono la forma scritta (si tratta ad esempio dei casi di accertamenti di un’infezione da HIV; interruzione volontaria della gravidanza, procreazione medicalmente assistita, quando si dona o si riceve sangue; interventi chirurgici, procedure ad alta invasività; utilizzo dei mezzi di contrasto) non è imposto il rispetto di alcuna formalità per l’assunzione del consenso anzi nella generalità dei casi sia l’informativa che il consenso vengono prestati verbalmente.
E’ ovvio che non si può non tenere conto del fatto che la mancanza di un consenso scritto renda difficoltoso l’adempimento dell’onere probatorio nell’ambito di un contenzioso.
Preme, peraltro, evidenziare come da un lato non si ritiene sufficiente la mera sottoscrizione di un modulo precompilato e dall’altro non occorra far firmare un consenso tropo prolisso o scritto con termini tecnici incomprensibili per il paziente.
Il consenso deve essere formulato in maniera semplice e comprensibile ed essere assunto dal medico che esegue il trattamento ed espresso dal paziente che deve rilasciarlo personalmente.
E’ certamente esclusa l’assunzione di un consenso tacito o presunto o acquisito comunque dal medico con modalità improprie (Cass., sez. III, 20.8.2013 n. 19220; Cass., n. 19212/2015).
Il consenso prestato dal malato deve, inoltre, essere attuale – ossia riguardare una situazione presente e non futura – e può essere revocato in ogni momento tanto che il personale medico è tenuto ad assicurarsi che permanga per tutta la durata del trattamento.
Pur essendo riconosciuta al paziente la titolarità di un diritto di tale portata, il dover acquisire il consenso informato ha aperto un vasto dibattito etico su quale debba essere la competenza che il paziente deve avere per poter dare un consenso libero e per poter comprendere le informazioni che gli vengono fornite, e su quale debba essere l’informazione più appropriata affinché il consenso sia realmente informato.
Come detto, l’obbligo del medico consiste nel “fornire un valido ed esaustivo consenso informato al paziente” (Trib. Trieste, 15.3.2011, n. 269) che rivesta i caratteri della chiarezza e che non sia eccessivamente generico ma che, viceversa, ponga il malato nella condizione di comprendere tutti gli aspetti caratterizzanti il trattamento terapeutico.
Quanto alla capacità cognitiva del paziente, dottrina e giurisprudenza concordano, anzitutto, sul fatto che debba trattarsi di un soggetto capace di intendere e volere.
Cosa succede tale capacità viene a mancare?
Nel caso del paziente minorenne, ad esempio, si ritiene che mentre per i comuni trattamenti medici sia sufficiente il consenso prestato da uno solo dei genitori per i trattamenti di maggiore importanza (per i quali è richiesto il consenso scritto) è necessario assumere il consenso da parte di entrambi i genitori (l’eventuale contrasto andrà risolto dal giudice tutelare). Occorre, in ogni caso, evidenziare che il medico, compatibilmente con l’età e con la capacità cognitiva, dovrà tenere conto anche dell’opinione del minorenne e cercare di raggiungere un consenso congiunto tra figlio e genitori. In presenza di un’insanabile contrasto tra genitori e figlio la decisione spetterà al giudice tutelare.
Per il paziente incapace di intendere e volere, il consenso deve essere prestato dal tutore; per quello in stato di necessità, sulla base di quanto prescritto dall’art. 54 del codice penale secondo cui “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo” è stato dettato il principio per cui il medico è autorizzato anche senza un valido consenso a compiere tutti gli atti che ritiene non procrastinabili e necessari in modo specifico per superare il pericolo ed il rischio. Superato lo stato di necessità l’operatore sanitario dovrà acquisire il consenso. La norma penale sopra richiamata disciplina nella sostanza una scriminante che legittima anche azioni normalmente illegali e a maggior ragione un intervento medico che ha la finalità di salvaguardare il paziente dal pericolo di un danno grave alla salute.
Laddove invece il paziente si trovasse in una situazione di temporanea incapacità (ad esempio in caso di abuso di alcol o di sostanze stupefacenti o in caso di temporaneo stato di incoscienza) il medico è autorizzato a prestare le cure indispensabili ed indifferibili anche senza il consenso del paziente attuando gradatamente il trattamento terapeutico e garantendo un miglioramento dello stato di salute del malato e la sua conseguente capacità a prestare il consenso per gli ulteriori trattamenti terapeutici ai quali sottoporsi. Se tale non dovesse essere l’esito, il medico, previo colloquio con i familiari potrà adire l’autorità giudiziaria chiedendo la nomina di un amministratore di sostegno o l’attuazione di ulteriori ipotesi di tutela del paziente.
La casistica processuale sulla responsabilità connessa al consenso informato è ampissima e trae origine dalla mancata o inesatta assunzione del consenso informato da parte del personale sanitario tutte le volte in cui omette di attenersi alle regole che disciplinano la forma, il contenuto dell’informazione e/o la capacità ad esprimere il consenso stesso.
Nella giurisprudenza civile si è ormai radicato il principio per il quale il mancato o incompleto consenso del paziente causato da un’errata o incompleta informazione prestata dal medico cagiona la violazione degli artt. 3 e 32 della Cost. dando origine ad un’ipotesi di responsabilità medica per inadempimento, del tutto indipendente dalla correttezza di esecuzione dell’intervento terapeutico eseguito.
Ciò che infatti assume rilevanza è che il paziente, in conseguenza del difetto informativo, non sia stato posto nella condizione di approvare e/o negare il trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni, producendo una evidente lesione della dignità.
Affinché possa condannarsi il personale sanitario è però necessario assolvere l’onere probatorio richiesto dalla procedura.
Sul punto laddove il paziente citi in giudizio il medico per inadempimento all’obbligo di assumere il consenso informato “incombe sul paziente l’onere di dimostrare che, se fosse stato adeguatamente edotto circa i rischi per la salute, correlati all’intervento chirurgico subito, pur se effettuato secondo le regole dell’arte, non avrebbe fornito il suo consenso, e ciò ai fini della risarcibilità del danno patito in seguito all’intervento medesimo” (Trib. di Verona, 10.1.2011), mentre è onere del sanitario dimostrare l’adempimento dell’obbligo informativo e di avergli, quindi, fornito un’informazione completa ed effettiva sul trattamento sanitario e sulle sue conseguenze (Cass., sez. III, 9.2.2010, n. 2847).
Assolti i rispettivi oneri probatori, l’organo giudicante, previo accertamento della sussistenza del danno e del nesso causale tra il danno e la mancata e pur dovuta informazione, è tenuto a valutare la fondatezza o meno della richiesta di risarcimento danni avanzata dal paziente.
Il danno alla lesione del diritto all’autodeterminazione può dare luogo tanto ad un danno patrimoniale quanto ad un danno non patrimoniale.
“Può in sostanza causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti; nonché un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione in se stesso, il quale sussiste quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute (Cass. 16 maggio 2013, n. 11950; v. anche Cass. 9 febbraio 2010, n. 2847)” (Cass., Sez. III, 30.9.2014, n. 20547).
Come accennato la situazione in ambito penale è diversa.
La giurisprudenza degli anni 90 ha ritenuto che la mancanza o l’omissione del consenso informato costituisse “elemento psicologico del reato di tipo doloso”, modificando quindi in modo radicale la riferibilità del danno da colposa (come era in precedenza) in dolosa (Corte di Assise di appello di Firenze, 26.6.91). Anche la Suprema Corte confermava tale principio affermando che “Se il trattamento, eseguito a scopo non illecito, abbia esito sfavorevole, si deve pur sempre distinguere l’ipotesi in cui esso sia consentito, dall’ipotesi in cui il consenso invece non sia prestato. E si deve ritenere che se il trattamento non consentito ha uno scopo terapeutico e l’esito sia favorevole, il reato di lesioni, comunque, sussiste, non potendosi ignorare il diritto di ognuno di privilegiare il proprio stato attuale (art.32, comma secondo, Cost.) e che, a maggior ragione, il reato sussiste ove l’esito sia sfavorevole.”(Cass. Pen., sez. V, 21.4.92, n. 699).
Secondo una recente pronuncia della Cassazione (Cass. Pen., sez. IV, 24.3.2015, n. 21537), invece, in presenza di un intervento sanitario rovinoso non può condannarsi penalmente il medico perché non ha assolto l’obbligo di assumere il consenso prestato dal paziente e ciò in quanto “il giudizio sulla sussistenza o meno della colpa non presenta differenze a seconda che vi sia stato o no il consenso informato del paziente”.
A parere dei giudici della Suprema Corte la suddetta circostanza ha rilevanza solo nel caso in cui la mancata acquisizione del consenso informato abbia reso impossibile per il medico “di conoscere le reali condizioni del paziente e di acquisire un’anamnesi completa”.
Alla luce di quanto esposto si evince chiaramente come in presenza di una legislazione basata su principi costituzionali piuttosto che su principi deontologici le regole concrete in tema di consenso informato sono state sostanzialmente dettate dalla giurisprudenza che si è trovata a dover garantire un equilibrio tra la liceità dell’attività sanitaria da un lato e l’autonomia e la libertà di scelta dell’individuo in ambito medico dall’altro.
L’articolo Brevi cenni sull’evoluzione del consenso informato: dal paternalismo medico al diritto individuale all’autodeterminazione è dell’Avv. Silvia Galletti